L’eccidio delle Fosse Ardeatine

L’eccidio delle Fosse Ardeatine

Roma, Via Rasella, 23 marzo 1944: una bomba esplode improvvisamente colpendo l’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment “Bozen”, appartenente alla Ordnungspolizei. L’attentato altro non fu che un avvertimento della Resistenza italiana diretto contro gli invasori tedeschi. La rappresaglia nazista non si fece attendere: per ogni tedesco ucciso, si decise, pagheranno con la vita dieci italiani, scelti tra i detenuti politici e comuni imprigionati all’interno del carcere di Regina Coeli e del carcere di via Tasso. È Herbert Kappler (Stoccarda, 23 settembre 1907 – Soltau, 9 febbraio 1978), ufficiale tedesco delle SS, comandante della Gestapo a Roma, a compilare la lista delle vittime prescelte. Quattro anni più tardi racconterà, nel corso del processo a suo carico, la tremenda dinamica dell’eccidio.

L’armistizio, come noto, fu firmato il 3 settembre 1943, il giorno stesso in cui l’VIII Armata, che aveva ormai conquistato tutta la Sicilia, aveva attraversato lo Stretto di Messina per sbarcare in Calabria; fu tuttavia reso noto soltanto la sera dell’otto settembre con un proclama di Pietro Badoglio (Grazzano Monferrato, 28 settembre 1871 – Grazzano Badoglio, 1º novembre 1956), allora Capo del Governo.

La reazione tedesca non si fece attendere. Già nella notte tra l’8 e il 9 settembre le prime colonne tedesche occuparono i principali punti strategici dell’Italia settentrionale e centrale, a cominciare proprio dalla Capitale, mentre l’esercito italiano si stava dissolvendo lentamente e l’apparato statale si muoveva verso la paralisi. Cadde lo Stato Fascista, mentre Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869 – Alessandria d’Egitto, 28 dicembre 1947) abbandonava Roma e si rifugiava col governo a Pescara per poi proseguire verso Brindisi, raggiunta dagli Inglesi.

Nacque così il Regno del Sud, che dichiarò guerra alla Germania il 13 ottobre 1943. Venne poi formato un corpo di liberazione chiamato a combattere a fianco degli Alleati in rappresentanza dell’esercito italiano. Nel Nord Italia, controllato dalla Wehrmacht, Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945), liberato dai paracadutisti tedeschi, ricostituì lo Stato Fascista fissandone la sede a Salò, sul Lago di Garda. I Tedeschi costituirono una linea di difesa che dal Garigliano, attraverso Cassino, giungeva sino alla foce del Sangro (Linea Gustav).

La Resistenza italiana ebbe il suo preludio militare con la difesa di Roma da parte di alcuni reparti dell’esercito che, sostenuti dalla popolazione civile, contrastarono l’ingresso dei Tedeschi nella zona di Porta San Paolo. Una resistenza poco più che simbolica. Nella parte del Paese controllata dai Tedeschi, comandati dal feldmaresciallo Albert Konrad Kesselring (Marktsteft, 30 novembre 1885 – Bad Nauheim, 16 luglio 1960), responsabile della repressione anti-partigiana, la Resistenza ebbe origini spontanee e si manifestò in forme differenti.

Sbandamento dei reparti del vecchio esercito, rifiuto della leva militare imposta da Mussolini, propaganda e contro-informazione, sabotaggi ai danni dell’esercito tedesco, iniziative di lotta armata vera e propria. Ben presto si formarono le prime bande, poi le brigate, e la guerra partigiana divenne l’aspetto preminente della Resistenza. Agli attentati individuali seguirono vere e proprie operazioni militari concordate tra le varie formazioni. Tra il 1943 e il 1945, gli uomini che parteciparono alla Resistenza furono oltre 230mila, dei quali almeno 125mila impegnati continuativamente nelle operazioni di guerra. I caduti furono 70mila all’incirca, i feriti gravi 40mila.

Nell’eccidio delle Fosse Ardeatine morirono 335 italiani. Un massacro delle cui dimensioni ci si rese conto effettivamente solo nel Dopoguerra, quando furono recuperati e identificati i corpi delle vittime.

Il 23 marzo 1944, come detto, 17 partigiani fecero esplodere un ordigno in via Rasella, a Roma, mentre passava una colonna di militari tedeschi. Nell’attentato rimasero uccisi 33 militari. La sera del 23 marzo Herbert Kappler, insieme al comandante delle forze armate della Wehrmacht di stanza nella capitale, il generale Kurt Malzer (Altenburg, 2 agosto 1894 – Werl, 24 marzo 1952), dispose che l’azione di rappresaglia dovesse consistere nella fucilazione di dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso, e suggerirono che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni di Regina Coeli e via Tasso. La proposta fu accettata.

Il luogo scelto per l’esecuzione fu una cava di tufo dismessa sulla via Ardeatina. La cava fu ritenuta idonea per poter eseguire la rappresaglia in segreto ed essere utilizzata come fossa comune dove occultare i cadaveri. Il numero dei prigionieri che erano già stati condannati a morte, però, non era sufficiente. Così i nazisti aggiunsero alla lista altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, altri sospettati di aver preso parte ad alcune azioni della Resistenza. Il giorno seguente, agli ordini dei capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass, i camion caricarono tutti gli arrestati e li portarono alle cave. Il massacro fu così compiuto.

Il più anziano tra gli uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici. Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che erano 335 anziché 330. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione, e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri. I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; ai militari incaricati di far fuoco venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di sparare da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni.

Gli ufficiali nazisti portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque legati tra loro e a inginocchiarsi. Li uccisero uno ad uno. Quando il massacro terminò, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo.

Qualcuno sentì le esplosioni, altri raccontarono di aver visto qualcosa: iniziò a diffondersi la voce dell’eccidio. L’unica informazione a riguardo arrivò da un trafiletto de Il Messaggero: “Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato, 10 criminali comunisti badogliani verranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.

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